Il divario Nord-Sud: un nodo che l’Italia non vuole risolvere

Il divario Nord-Sud: un nodo che l’Italia non vuole risolvere

Il divario tra Nord e Sud non è un residuo storico da relegare nei libri, ma un fattore strutturale che ancora oggi frena la crescita dell’Italia e alimenta disuguaglianze sistemiche. Il ritardo meridionale non nasce soltanto dall’assenza di infrastrutture, ma da una combinazione di debolezze produttive, istituzionali e sociali che si sono stratificate nel corso di oltre un secolo. Il rapporto della Banca d’Italia “Il divario Nord-Sud: sviluppo economico e intervento pubblico” delinea un quadro impietoso: il Mezzogiorno contribuisce con poco più di un quinto del PIL nazionale pur ospitando quasi un terzo della popolazione italiana.

Il divario non è sempre esistito con la stessa intensità. Le ricostruzioni storiche mostrano che, prima dell’avvio del processo industriale, le differenze economiche erano meno marcate. È con la concentrazione delle grandi industrie nel Nord, supportata da capitali, infrastrutture e reti commerciali, che il Mezzogiorno ha iniziato a restare indietro. Uno studio sull’evoluzione del PIL pro capite tra Mezzogiorno e Centro-Nord dal 1861 al 2015 mostra come la divergenza si sia accentuata nel tempo, consolidandosi nei livelli di produttività e reddito.

Negli anni del cosiddetto “miracolo economico” italiano, tra la fine degli anni Cinquanta e i Sessanta, il divario si ridusse in parte grazie alla crescita nazionale sostenuta e a una maggiore mobilità interna. Ma quel momento fu temporaneo. Le politiche di riequilibrio non furono mantenute con continuità e gli interventi successivi, spesso frammentati o emergenziali, hanno lasciato intatto il problema strutturale.

Oggi il divario appare in molte dimensioni della vita quotidiana: nel mercato del lavoro, nell’accesso al credito, nella qualità delle infrastrutture, nella capacità della pubblica amministrazione e nella formazione del capitale umano. Le imprese meridionali affrontano costi più elevati, minori reti di collaborazione e difficoltà di innovazione. La Banca d’Italia sottolinea che un vero recupero del Mezzogiorno richiederebbe non solo investimenti, ma anche un salto di qualità nella produttività, nella partecipazione al lavoro e nella solidità delle istituzioni locali.

La questione meridionale è, di fatto, una questione nazionale. Il Nord senza il Sud perde slancio, domanda interna e coesione politica; il Sud senza il Nord perde orientamento, capitali e fiducia. La crescita dell’intero Paese è vincolata da come il Mezzogiorno riuscirà a rialzarsi. Non bastano incentivi episodici o fondi distribuiti a pioggia. Serve una strategia di lungo periodo capace di affrontare i nodi reali: il deficit di capitale sociale, la qualità della governance, l’attrazione dei talenti e la loro permanenza.

L’Unione Europea fornisce strumenti importanti – dai fondi di coesione alle politiche di convergenza – ma troppo spesso l’Italia non riesce a utilizzarli pienamente per mancanza di capacità progettuale e di esecuzione. Il Fondo per lo Sviluppo e la Coesione, che dovrebbe essere uno dei motori della riduzione degli squilibri, resta ancora un meccanismo lento e frammentato.

Alla fine, il punto è politico e culturale. Finché il Sud sarà percepito come un problema da contenere e non come una risorsa da attivare, nessuna riforma riuscirà a invertire la rotta. Se l’Italia vuole competere ad armi pari in Europa e nel mondo, deve superare la logica dell’assistenzialismo e costruire un progetto nazionale che veda nel Mezzogiorno un laboratorio di crescita, innovazione e futuro. Solo allora il Paese potrà dirsi davvero unito.