Gaza dopo la pace: la ricostruzione che deciderà il futuro del Medio Oriente

Gaza dopo la pace: la ricostruzione che deciderà il futuro del Medio Oriente

La ricostruzione di Gaza non è un semplice progetto infrastrutturale, ma un banco di prova storico per la stabilità della regione e la credibilità dell’ordine internazionale. Dopo anni di guerra e distruzione, la pace apre una nuova fase che non riguarda soltanto la ricostruzione materiale, ma anche quella politica, istituzionale e umana di un territorio devastato. Oggi, la vera domanda non è se Gaza potrà essere ricostruita, ma come, da chi e con quale visione.

Secondo il Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo, il costo stimato per la rinascita della Striscia supera i settanta miliardi di dollari. È una cifra che va oltre la ricostruzione di edifici e infrastrutture: comprende la bonifica delle macerie, la ristrutturazione del sistema idrico, il ripristino delle reti elettriche, il rifacimento di scuole, ospedali, porti e dell’aeroporto. Diversi Stati arabi, europei e gli Stati Uniti hanno già espresso disponibilità a contribuire, ma la questione più complessa non è economica, bensì politica: chi governerà Gaza nel frattempo e sotto quali condizioni.

Il piano di pace prevede una fase transitoria di governance affidata a un’autorità tecnica palestinese, sotto la supervisione di una missione internazionale di stabilizzazione. L’obiettivo dichiarato è quello di restituire il controllo all’Autorità Palestinese entro pochi anni, ma la realtà è più complicata. Hamas, pur ridimensionata militarmente, ha dichiarato di voler mantenere un ruolo nella sicurezza interna, creando una contraddizione con l’obiettivo di demilitarizzazione totale richiesto da Israele. In questo equilibrio precario, la ricostruzione diventa uno strumento di potere tanto quanto un atto di pace.

La rinascita materiale di Gaza è concepita in tre fasi. La prima, di emergenza, mira a liberare le strade dai detriti, installare alloggi temporanei per centinaia di migliaia di sfollati e ripristinare acqua ed energia. In questa fase, la priorità è la sopravvivenza quotidiana. La seconda fase, che coprirà un arco di due o tre anni, punta a ricostruire infrastrutture permanenti, con almeno 400.000 abitazioni, reti sanitarie e scolastiche e nuovi sistemi di trasporto. La terza fase, di lungo periodo, dovrebbe delineare la nuova Gaza: un tessuto urbano più resiliente, zone economiche speciali, parchi industriali e una pianificazione orientata alla sostenibilità.

Il piano “Gaza Phoenix”, redatto da un consorzio di esperti palestinesi e internazionali, immagina una città che rinasce dalle ceneri come un laboratorio di innovazione e rinascita. Tuttavia, questa visione ambiziosa si scontra con la realtà materiale di un territorio distrutto. Secondo una recente analisi satellitare, circa il sessanta per cento degli edifici della Striscia è stato danneggiato o completamente raso al suolo. A ciò si aggiungono il rischio di ordigni inesplosi, la scarsità di materiali da costruzione e la necessità di coordinare migliaia di imprese in un contesto logistico fragile.

Sul piano geopolitico, la ricostruzione di Gaza è anche una partita di influenza. L’Egitto si è proposto come hub principale della rinascita con un piano da cinquantatre miliardi di dollari, destinato a essere implementato in collaborazione con governi arabi e partner europei. Ma chi finanzierà Gaza eserciterà inevitabilmente potere politico. Gli Stati del Golfo vedono nella ricostruzione un’occasione di espansione economica e soft power, mentre per l’Europa rappresenta un test per la propria capacità di agire come attore geopolitico e non solo come donatore.

Il nodo critico sarà la trasparenza. Gli aiuti internazionali, per non disperdersi nei meccanismi di corruzione o inefficienza che hanno già segnato il passato, dovranno essere gestiti con una governance chiara, controlli multilaterali e standard internazionali di rendicontazione. L’esperienza postbellica in Iraq e Siria ha mostrato quanto facilmente i fondi di ricostruzione possano alimentare disuguaglianze o clientelismi. Per Gaza, l’errore non è ammissibile: una nuova crisi distruggerebbe definitivamente la fiducia dei donatori e renderebbe vana la pace appena conquistata.

Infine, il tema ambientale sarà decisivo. La Striscia era già tra le aree più dense e vulnerabili al mondo: falde inquinate, scarsità d’acqua, rifiuti urbani e infrastrutture obsolete. Ricostruire senza una prospettiva sostenibile significherebbe preparare il terreno a una nuova emergenza. L’obiettivo dichiarato dell’ONU è quello di trasformare Gaza in un modello di rigenerazione urbana mediterranea, con efficienza energetica, economia circolare e impiego massiccio di fonti rinnovabili.

La ricostruzione di Gaza sarà dunque un test morale e politico per il mondo intero. Se la pace reggerà e la comunità internazionale saprà agire con coerenza, Gaza potrebbe diventare il simbolo di una nuova stagione per il Medio Oriente, in cui la stabilità nasce dall’equità e non dalla forza. Se invece prevarranno le logiche di potere, la Striscia rischierà di restare intrappolata nel suo eterno ciclo di distruzione e promessa.

Oggi Gaza non chiede solo aiuti, ma fiducia. E il modo in cui la comunità globale risponderà a questa sfida dirà molto sul tipo di mondo che stiamo costruendo.